Introduzione

Una memoria attiva della Resistenza

Il 18 dicembre di un secolo fa scese su Torino la notte più buia: quattordici antifascisti – sindacalisti, operai, commercianti, manovali, con l’unica «colpa» di essere anarchici o comunisti – furono trucidati dalle squadracce fasciste guidate da Piero Brandimarte. Il 28 aprile 1945 Torino si riscattò dal ventennio fascista, liberandosi da sola dall’occupazione nazista. Ha ancora senso, a tanti anni di distanza, ricordare quegli eventi?

La maggior parte dei passanti che oggi animano piazza XVIII Dicembre o utilizzano la fermata della metropolitana con quell’intitolazione probabilmente nulla sanno dell’assalto squadrista all’antica sede della Camera del Lavoro (era in corso Siccardi), avvenuto quella notte del 1922 nei pressi della stazione di Porta Susa. In Borgo San Paolo hanno i capelli bianchi i pochi che ricordano perché esista una via dedicata a Dante Di Nanni. E quanti sono i giovani che hanno studiato il significato della sigla CLN, che si può scorgere sulla targa di una piazza del centro storico cittadino?

Eppure questi brandelli di storia, rimasti nella toponomastica di Torino come in tante altre città, testimoniano che da quegli eventi tragici è nata la democrazia italiana.

Al nostro Paese serve una memoria attiva della Resistenza, che non fu affatto un «derby tra fascisti e comunisti», bensì il momento fondativo della Repubblica Italiana, sostenuto da tutte le forze politiche – democristiani, comunisti, socialisti, liberali, azionisti, monarchici – che parteciparono alla lotta clandestina contro il fascismo.

Queste pagine ripercorrono i momenti salienti della «battaglia di Torino», che in sette giorni dell’aprile 1945 riuscì a liberare il capoluogo piemontese dalla morsa della Wehrmacht e delle Brigate Nere – una delle poche città italiane ed europee, insieme con Napoli nel 1943, Firenze nel 1944 e Genova nel 1945, a riuscirci grazie alle armi della Resistenza. È un libro che vuole ricordare «soprattutto alle giovani generazioni i giorni tremendi e trepidi, tormentati e lieti della Liberazione del nostro Paese». Così scrisse Davide Lajolo – il giornalista e scrittore che dopo l’8 settembre, con il nome di «Ulisse», scelse la lotta partigiana – nella quarta di copertina della prima edizione di questo volume.

Alla fine degli anni Settanta, non ancora trentenne, ero all’inizio della mia carriera giornalistica e, grazie all’amicizia con la figlia Laurana, frequentavo la sua casa di Vinchio, nel Monferrato, tra le colline dov’era nato e amava rifugiarsi. Collaboravo alla rivista Giorni, che Ulisse dirigeva, e un giorno, passeggiando per le vigne con il suo cane Argo, mi chiese di scrivere un libro dedicato ai giorni dell’insurrezione di Torino, per una collana che stava organizzando.

Emozionato, ma con orgoglio, accettai l’incarico di firmare la mia prima opera. Dopo quella, ne ho scritte tante, da solo o con mia moglie Clara, dedicate a diversi argomenti di storia materiale, ma per me quell’esordio da «giovane autore» fu indimenticabile. Mi gettai con entusiasmo alla ricerca di testimonianze, documenti, libri, articoli dedicati ai giorni della Liberazione di Torino, in un lavoro che m’impegnò per oltre un anno.

Grazie alle Edizioni del Capricorno, ora torna in libreria e in edicola questo libro pubblicato nel 1979 con il titolo La Liberazione di Torino, in un’edizione riveduta e ampliata. Infatti ho utilizzato le fonti storiografiche successive a quel periodo, quando prevaleva forse un’interpretazione un po’ troppo «eroica» della Resistenza. Alcuni episodi, come la morte di Dante Di Nanni, le stragi di Grugliasco e Collegno, le esecuzioni dei repubblichini dopo la Liberazione, sono state ricostruiti in modo più veritiero.

Le pagine che seguono lasciavano poco spazio alla retorica già nella prima edizione. Mi sono limitato – con uno stile asciutto e giornalistico (come fu definita l’opera allora) – a raccontare i fatti e le storie di quei seicento giorni di sofferenza per Torino. La narrazione comincia dall’armistizio di Cassibile del settembre 1943 e si conclude il 30 aprile 1945, quando un manifesto firmato dal sindaco Giovanni Roveda, appena nominato dal Comitato di Liberazione Nazionale, comunicava ai torinesi che l’Italia settentrionale era «finalmente libera» e grazie alla «forza unita del popolo e dei gloriosi partigiani è riuscita a debellare gli oppressori».

Nessuno dei protagonisti di quelle straordinarie giornate di quasi ottant’anni fa, che per mesi intervistai nella sede dell’ANPI (l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani), è stato un grande comandante o un famoso dirigente politico; ma di certo tutti hanno concorso, con il loro coraggio, alla libertà conquistata da Torino: mi raccontarono la loro esperienza così come l’avevano vissuta. Spero che il lettore colga ancora la loro spontaneità e l’entusiasmo che mi trasmisero. Allora erano quasi tutti pensionati e le loro parole oggi assumono un valore doppio, perché, trascorsi altri quarant’anni, purtroppo non sono più con noi.

Le loro storie appartengono alla città, sono parte della vita di tutti i torinesi. Perché scelsero la parte «giusta»? Forse per istinto, forse per una convinta militanza politica, forse per le amicizie. Gli altri, quelli dalla parte sbagliata, ebbero compagnie diverse, un senso dell’onore mal riposto, un odio per i «sovversivi» che li portò a scelte aberranti, come le torture e le fucilazioni degli antifascisti.

Secondo il generale Alessandro Trabucchi, che guidò l’insurrezione, I vinti hanno sempre torto. Va però ricordato che, nel suo saggio Una guerra civile, Claudio Pavone, uno storico che fece la Resistenza e non può essere certo tacciato di revisionismo, distingue tre fasi che caratterizzarono quei due anni: una guerra patriottica, una guerra civile, una guerra di classe.

Ebbene, si può dire che a Torino si vissero tutte e tre. Vi fu il patriottismo degli ufficiali fedeli al re, come Trabucchi (responsabile del CMRP, il Comando Militare Regionale Piemonte) o come Franco Balbis, che venne fucilato dai fascisti al poligono del Martinetto il 5 aprile 1944. Tra i RAP, i Reparti Anti Partigiani della Repubblica di Salò e i GAP, i Gruppi di Azione Patriottica creati dal Partito Comunista, si combattè una spietata guerra civile. E poi si sviluppò, fin dal marzo 1943, una durissima lotta di classe nelle fabbriche, che sfociò prima nelle agitazioni «contro la fame e il terrore» e poi nello sciopero insurrezionale del 24 aprile 1945.

Scorrendo queste pagine il lettore potrà vivere in presa diretta le «sette giornate di Torino», durante le quali si affrontarono, per la prima volta a viso aperto, circa tredicimila militari tedeschi e fascisti, muniti di carri corazzati e di un ottimo equipaggiamento, contro alcune migliaia di sappisti (organizzati nelle SAP, le Squadre di Azione Patriottica, nate per difendere le fabbriche, con poche armi e tanto coraggio) e diecimila partigiani provenienti dalle valli del Torinese (Lanzo, Chisone, Pellice, Susa) e dalle colline del Monferrato.

Si vissero momenti di grande tensione, dopo che il 24 aprile fu emanato l’ordine di attacco «Aldo dice 26 x 1»: era il via libera all’insurrezione che, a partire dall’una di notte del 26 aprile, doveva essere appoggiata dall’arrivo delle formazioni del Corpo Volontari della Libertà. Durante la battaglia di Torino, gli operai occuparono le fabbriche, difesi da pochi sappisti, resistendo alle colonne motorizzate dei nazifascisti, che partendo dalle caserme del centro cittadino in cui erano asserragliati si scagliarono contro il Lingotto, la Grandi Motori, la FIAT Mirafiori. Furono ore drammatiche, perché i partigiani tardavano a scendere in città, anche a causa di un contrordine del colonnello inglese Stevens: si scoprì poi che cercava di evitare l’insurrezione, affinché a liberare Torino fossero gli Alleati in arrivo da Bologna. Poi, finalmente, nella notte tra il 27 e il 28 aprile, i nazifascisti scapparono, consegnandosi a Ivrea agli americani. Tutto si concluse con i solenni funerali delle vittime (circa 800, tra i caduti durante i combattimenti e quelli colpiti dai cecchini fascisti), svoltisi il 30 aprile 1945.

Le prime jeep USA giunsero in piazza Castello soltanto il 3 maggio 1945 e trovarono una città ordinata, al lavoro, con tutti gli organi di governo già insediati. È quasi stupefacente verificare come la direzione politica dell’insurrezione, guidata in modo corale da tutti i partiti del CLN e dagli ufficiali rimasti fedeli al re, riuscì a organizzare tutto in modo perfetto.

Ha scritto Franco Antonicelli, l’intellettuale liberale presidente del Comitato di Liberazione piemontese: «Torino si mostrò città così civilmente preparata, così organizzata, da creare una vera sorpresa negli Alleati». Accanto ai comunisti come Giorgio Amendola e Italo Nicoletto, operarono di comune accordo gli azionisti Alessandro Galante Garrone e Giorgio Agosti, il socialista Rodolfo Morandi, il democristiano Andrea Guglielminetti (che divenne sindaco negli anni Settanta), i liberali Paolo Greco e Antonicelli. E perfino gli industriali diedero una mano: Vittorio Valletta, l’amministratore delegato della FIAT, sostenne il CLN con finanziamenti mensili. E l’azienda, anche tramite l’avvocato Mario Dal Fiume, salvò dalla deportazione migliaia di renitenti alla leva, assumendoli. I lavoratori in qualche modo ricambiarono, evitando lo smantellamento delle fabbriche, che furono riconsegnate integre e pronte a tornare in attività.

Fu una stagione irripetibile: trasmise uno slancio e una voglia di futuro che oggi invidiamo a quei piccoli o grandi protagonisti. Questa storia può essere lo stimolo per tutti noi ad adottare una forma di resilienza più serena, godendo della libertà attuale e ispirandoci a quei martiri, «sacro patrimonio delle generazioni future», come sono ricordati nella motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare concessa alla Città di Torino.

Questa è la lezione che ci hanno lasciato, da mai dimenticare.

Gigi Padovani

Torino, febbraio 2022